Le statue di pietra: violenza morale, manipolazione psicologica e ferite dell’anima

La violenza morale e le ferite dell’anima

Ogni donna può potenzialmente diventare vittima di un uomo violento, ma ciò che determina il livello di gravità e l’evoluzione della relazione è la vulnerabilità emotiva. 

Questa vulnerabilità spesso si sviluppa a causa di esperienze pregresse legate all’infanzia, all’ambiente familiare, o a relazioni passate. Ci sono donne che, per la loro storia o per caratteristiche intrinseche della personalità, si trovano a fare meno resistenza, finendo per determinare una escalation negativa nella relazione. Questo atteggiamento passivo dà all’uomo l’idea che potranno essere dominate, conquistate, piegate al suo volere. In una relazione affettiva, entrambi i partner conoscono molto bene i punti deboli dell’altro, e nel momento dello scontro, non esitano a colpire proprio lì. Non esiste una “vittima tipo“, ma è evidente come la dimensione affettiva abbia un ruolo cruciale nel creare una dinamica relazionale tossica e spesso distruttiva.

Alcune donne, pur avendo una vita sociale e professionale appagante, risultano essere affettivamente insicure. Hanno paura di interrompere la relazione con l’uomo che percepiscono come forte, unico e indispensabile per la propria felicità. Così finiscono per sottomettersi, pur di mantenere quel legame che per loro rappresenta sicurezza, amore e identità. In molti casi, questa vulnerabilità affettiva affonda le radici in storie familiari dolorose, dove mancano accettazione, conferme emotive, presenza costante o libertà emotiva. Il partner diventa così colui che deve colmare quei vuoti antichi, diventando una sorta di figura riparatrice di ferite primarie mai curate. 

Eppure, la realtà è ben diversa: questi legami si basano spesso su uno schema distorto che riconferma la propria inadeguatezza. Si soffre per ottenere amore, ma l’amore vero non arriva mai. Anzi, si finisce per respingerlo, quando si presenta in forma sana, perché appare sconosciuto, ingestibile, immeritato.

Il ciclo della violenza emotiva e l’incastro perfetto

La dinamica che si crea tra vittima e carnefice è paradossalmente simmetrica: se uno dei due è affettivamente dipendente, lo è anche l’altro, anche se appare dominante. È una relazione tossica, una dipendenza reciproca che crea un incastro perfetto. Il carnefice domina, ma allo stesso tempo dipende dalla propria capacità di controllo sull’altro. Si crea così una dinamica perversa in cui entrambi sono prigionieri: uno del bisogno di essere amato, l’altro del bisogno di avere potere. In pubblico, spesso, l’uomo si mostra premuroso, affettuoso, disponibile, e questo comportamento ha uno scopo preciso: ottenere testimoni a proprio favore e confondere ancora di più la vittima, rafforzandone il senso di colpa.

Nel privato, la relazione assume invece toni opposti: la molestia morale, la violenza psicologica, la svalutazione costante e la manipolazione mentale diventano strumenti con cui si distrugge l’identità dell’altro. La violenza fisica spesso arriva solo alla fine di un lungo percorso di demolizione interiore. È l’ultima fase, quella in cui la vittima, nel tentativo di ribellarsi, viene punita. Ma non è l’unica forma di abuso: anche la violenza sessuale, spesso difficile da raccontare, è parte integrante di queste relazioni. La vergogna, il senso di sporco e la paura del giudizio bloccano la donna nella solitudine.

Le storie vere di Giulia e Lavinia: vite segnate dalla violenza

Giulia è una giovane madre separata, artista e creativa, che si trova coinvolta in una relazione con Libero, un uomo geloso e possessivo. La gelosia si trasforma rapidamente in controllo e poi in abuso. Libero la costringe a rapporti sessuali ripetuti e dolorosi, la isola, la umilia, la svuota. Anche quando i segnali sono evidenti, Giulia continua a giustificarlo, a proteggerlo, a sperare in un cambiamento che non arriverà. 

Quando anche il figlio diventa bersaglio della violenza, capisce che deve fuggire. Ma Libero non la lascia andare, la perseguita, la ricatta, la minaccia. E quando lei torna per un ultimo chiarimento, viene di nuovo abusata, legata, costretta, umiliata. Fugge solo grazie all’intervento di uno zio. Ma non denuncia, per paura, per vergogna, per senso di colpa. La violenza non l’ha solo ferita: l’ha spezzata.

Lavinia ha una storia diversa, ma ugualmente segnata. Dopo aver subito un’aggressione da giovane, ha perso parte della sua autonomia. Convive con Aldo, un uomo che contribuisce poco alla vita familiare ma la sovrasta con la parola. È aggressivo, umiliante, scontroso. Anche se non la picchia – se non qualche strattone – la sua presenza è un peso costante. Lavinia non riesce a lasciarlo, non immagina una vita da sola. È convinta che, in fondo, lui non sia cattivo. Solo che ha un brutto carattere. E intanto, ogni giorno, si spegne un po’ di più.

Violenza economica, senso di colpa e manipolazione

La pressione economica è un’altra arma usata nei rapporti violenti. L’uomo può impedire alla donna di lavorare, di crescere, di mantenere una propria indipendenza. Ma accade anche il contrario: oggi esistono casi in cui è la donna a mantenere l’uomo, mentre lui si finge vittima del sistema, disoccupato, sconfitto. La donna si sente in colpa e resta nella relazione per senso di responsabilità, anche quando è infelice. Il partner, in entrambi i casi, usa il ricatto emotivo, talvolta arrivando a minacciare il suicidio pur di non essere lasciato.

La violenza più diffusa è quella verbale, invisibile ma devastante. Frasi umilianti, svalutazioni continue, disprezzo mascherato da ironia: la pressione è costante e logorante. L’obiettivo è il controllo totale. L’umiliazione, la confusione, l’isolamento: così si distrugge l’identità. La donna smette di reagire, non si riconosce più, entra in uno stato di paralisi emotiva. E quando la violenza è “pulita”, cioè senza segni visibili, il dolore si manifesta nel corpo: malesseri, malattie psicosomatiche, abuso di farmaci. Il corpo parla quando la voce non può.

Cultura patriarcale e impotenza appresa

La violenza di genere ha radici antiche. Il patriarcato ha tramandato per secoli l’idea dell’uomo dominante e della donna sottomessa. Nonostante i progressi, queste dinamiche permangono in forme più sottili, ma non meno pericolose. Le donne sono state educate a compiacere, a sacrificarsi, a non disturbare. Gli uomini, a comandare, a controllare. La società spesso minimizza, giustifica, colpevolizza le vittime. Perché le donne restano? Perché il percorso di presa di coscienza è lento, graduale, confuso. Come nella metafora della rana bollita: l’acqua si scalda piano, e la vittima non capisce che sta morendo dentro.

L’impotenza appresa è un concetto chiave: più è sistematica la pressione subita, meno la vittima sarà in grado di uscirne. La sottomissione diventa uno schema appreso, un riflesso condizionato. A volte è una difesa, come l’identificazione con l’aggressore (sindrome di Stoccolma): se lo capisco, forse lo posso controllare. La donna finisce per credere che se lui è violento, è colpa sua. Non è abbastanza brava, bella, presente, innamorata. È lei a fallire. E questa convinzione diventa una gabbia. Anche quando la violenza finisce, resta il trauma.

Articolo a cura della Dott.ssa Maria Grazia Santucci

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